Storia


La Pineta di Arenzano

bozza2_15Una sperimentazione architettonica, poco conosciuta, nata dal nulla nella seconda metà degli anni cinquanta. Un luogo straordinario, un altopiano sul mare che raggiunge i 90/100 metri con 135 ettari di terreno, un tempo un bosco a macchia mediterranea, riserva di caccia e zona agricola di unica proprietà.
Un luogo storicamente indimenticabile tanto che Alford nel viaggio da Cannes a Genova lo racconta con precisa descrizione e Rodocanachi lo ritrae su tela in lungo ed in largo.
La Cemadis s.p.a. (Centri Marittimi di Soggiorno) inizia -negli anni ’50- nel comprensorio della pineta una strategia di piano sperimentale.
Due firme prestigiose dell’architettura milanese Gardella e Zanuso impostano una prima bozza in un piano di lottizzazione, poi sviluppato dagli uffici tecnici della società, che prevede la distribuzione del comprensorio per comparti edificatori e di attrezzature collettive (un campo da golf a 18 buche, campi da tennis, un centro ippico, un piccolo centro direzionale ed un albergo con due piscine con annesso porticciolo turistico).
La viabilità interna riprende i viottoli e i sentieri già esistenti pensati come strade pedonali e per veicoli elettrici .

I primi lavori di costruzione vengono iniziati nei primi mesi del 1957 con l’Hotel residenza Punta S. Martino firmato dalla coppia Gardella-Zanuso ed un villino di sette appartamenti firmato Gardella-Veneziani. Sguono la Piazza degli edifici del centro (conosciuta come il “portichetto”) di Gardella e le “case rosse” di Zanuso, tutti esemplari edifici in parte rintracciabili tra le pieghe delle singole monografie , ma inseriti in questo contesto assumono un valore di esperienza .
Tanti si sono avvicendati con più interventi: Franco Buzzi, Luigi Caccia Dominioni, Anna Castelli, Gianfranco Frattini, Vico Magistretti, Roberto Manghi, Giò Ponti, Luigi Rovera, Gianni Zenoni, poi Robaldo Morozzo della Rocca, Cesare Clivio, Datta, Giorgio Gnudi, Adriano Pietra e gli ingegneri Mosca e Dufour.
Un patrimonio di notevole importanza dal punto di vista architettonico, un luogo immerso nel verde pieno di tensione sperimentale (almeno nella prima fase), dalla villa Arosio di Ludovico Magistretti (pubblicata nella rivista di E.N.Rogers in Casabella Continuità n 234 e in copertina che apriva il dibattito interno al CIAM sulla questione italiana , ultimamente riscoperta da Domus in un reportage fotografico in omaggio a Magistretti), al Portichetto e complessi Punta San Martino e casa propria per le vacanze di Ignazio Gardella, splendidi esempi di immersione nel paesaggio e composizioni colte.

Notevoli sono gli agganci con il terreno, i materiali sono poveri, l’intonaco alla genovese è tinteggiato in pasta o con mattone macinato, la pavimentazioni è in grés, tetti e manti di copertura sono in ardesia e le persiane verdi (alla francese).

Erano gli anni, per Gardella, dei contemporanei cantieri veneziani della Cà alle Zattere, della fabbrica di taglio ad Alessandria, della mensa Olivetti ad Ivrea, della Chiesa di Cesate e questa esperienza arenzanese metteva le basi per analoghi complessi turistici come ai Piani d’Invrea a Varazze e al porto di Punta Ala a Castiglione della Pescaia.
Gardella soggiornerà parecchio ad Arenzano prolungando l’attività con progetti realizzati in Liguria compreso il teatro Carlo Felice pensato e progettato con Aldo Rossi tra i pini della collina d’Arenzano.
Altri esempi concorrono alla sperimentazione come la Villa Ercole di Giò Ponti (pubblicata su Domus 392/62) con la grande sporgenza del tetto crea, sul fronte a mare, una zona coperta per il pranzo; in tutta la casa il pavimento è in ceramica a righe blu diagonali e il soffitto a righe bianco lucido e bianco opaco, mentre l’intradosso della sporgenza del tetto è dipinto in blu scuro. Sperimentazioni di materiali e tecniche in rigoroso risparmio come nel grande complesso Marina Grande di Vico Magistretti , articolato e reso in una unità di abitazione per vacanze su diversi piani a cascata verso il mare con attrezzature balneari, servizi collettivi, piscine.
Nel ‘64 Casabella dedica ben due numeri monografici sulle coste italiane e villaggi turistici. Gardella in un discorso intervista espose la verosomiglianza con la strategia di De Carlo per Monte Marcello, case sparse inserite morfologicamente sulle curve di livello a seguire senza sbancamenti.

Dove stava l’utopia come dimensione dell’abitare e idea di città ?
E’ bene riconoscere, appropriarsi di una storia recente dell’architettura moderna come fatto monumentale di riferimento dell’innovazione e trasformazione del nostro paese e paesaggio ed ha ragione Baldi di tutelare, archiviando, per generare una memoria collettiva allargata alla contemporaneità, ma la tutela è come un macigno che incide sui costi sociali. Perché conservare le ludiche sperimentazioni individuali di una classe (quando si sono demoliti padiglioni della triennale e altre opere pubbliche) ai fini collettivi?
Perché allora non conservare sperimentazioni di utopiche comunità europee?
Perché non indicare strade più articolate della solo monumentale architettura?
Credo che tra la CRITICA (che è il faro che illumina e oscura figure, opere, eventi & fatti dentro un disegno di rinascenza ) si stia perdendo, inseguendo fari, forme, figure e stars & superstars, rendendo l’architettura ad un mondo di eroi di carta.
Siamo ben lontani dai progetti politici di Argan & Tafuri che lavoravano nei vuoti delle emergenze per un ridisegno dello scrivere la storia.
Le pubblicazioni, strenne monografiche, sono sempre più asettiche ad ogni luogo, ad ogni contesto, edifici presentati come un medagliere di vittorie sul campo, memorie di battaglie mercenarie.
L’architettura ha sempre lavorato nel plus valore e per il potere (sono poche le varianti) ma esiste una soglia di tolleranza civile nella riscoperta dei valori di un mestiere che non deve inseguire successi, premi e riconoscimenti (vedi caso Murcutt che non ritira il nobel degli architetti), vernici in biennali e triennali che hanno perso il loro valore comunicativo.

E’ necessario operare con l’umiltà di produrre, di rendere il quotidiano una ragione d’essere nella propria nobiltà, di favorire processi economici modificando professionalità e ricerca.
Il nostro paese ha bisogno di una riscoperta della dignità del quotidiano attraverso una riflessione che lo strano e l’eccezionale non ha risultato di continuità, appunto; quella che Rogers sottolineava come “l’utopia della realtà”, spinta del fare del progetto… ormai un poco dimenticata in un gioco da grande fratello.
Ritornando a noi, se c’è un modo di recuperare il senso della lottizzazione della pineta di Arenzano, è che allora e nel tempo era ed è fabbrica continua, formazione di maestranze che ancora oggi sono presenti sul territorio con straordinarie capacità artigianali ed intere famiglie si sono strutturate su questo processo di trasformazione.
In un momento di mutazione economica i maestri d’ascia per barche si sono trasformati nel tempo come artigiani edili, formando e informando i mondi del progetto sino al design.
Quasi un laboratorio, una scuola pragmatica del fare sapiente.
Certamente a chiusura Rovera & Clivio giocano un ruolo importante, il primo per la gestione del piano Macchi Cassia il secondo per la diffusione dell’eredità anche attraverso degli articoli a memoria.
Credo che questo sia il salto dell’esperienza di Arenzano, una sperimentazione colta e diffusa, partecipata, al di la di ricerche formali ed estetiche o esaltazioni espressive personali ma reale e formativa per chi progetta e per chi costruisce arrivando ad un’ intesa di immaginario immaginato collettivo.
Un modo di capire e cucire legami intrecci relazioni, Arenzano era sede di scambi culturali del novecento in casa Rodocanachi, di lì passavano Sbarbaro, Grande, Montale, Barile, Gadda, Bo, Vittorini, Mario Labò e poi a seguito il mondo che si diceva prima.

[autore: Brunetto De Battè]